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La Davis del ’76 è diventata un francobollo, prima, poi una serie. Segno dei tempi. È un racconto a quattro voci che profuma di racchette antiche. Quella dissacrante di Panatta, quella serafica di Bertolucci, quella misurata di Barazzutti, quella autentica di Zugarelli, quella nostalgica di Pietrangeli. Quattro compagni di scuola e un professore, capitano non giocatore, che di cose da spartire ne hanno una sola ma grande grande: la Coppa Davis, quella fatta a forma di insalatiera. L’unica che l’Italia sia riuscita a mettere in bacheca in oltre cento anni di storia della competizione per nazionali. Vinta d’inverno a Santiago, era dicembre, contro tutti e contro tutto. Contro i tennisti cileni, in ultima istanza, ma prima ancora contro le resistenze della politica, contro gli intellettuali e contro un’opinione pubblica fortemente schierata. Soprattutto quella di sinistra, favorevole al boicottaggio, che in segno di protesta rifiutava categoricamente di mischiare con faciloneria la dittatura alla democrazia. Nessuna volée contro il Cile di quel dittatore fascista che era Pinochet. Per molti ma non per tutti, soprattutto non per loro. E non per Nicola, intendendo Pietrangeli, duecento coppe e quattro lingue, che ancora oggi tiene tutto per sé il merito di aver portato i suoi ragazzi fin lì. Lottando, più o meno diplomaticamente, in nome e per conto dello sport. Adriano e Paolo, scapoli, Corrado e Tonino, ammogliati. Due mondi e quattro modi. La veronica e il braccio d’oro, la regolarità su terra e il guizzo su erba. Gente a cui piaceva chiudere le partite in tuffo: chi preparava, chi rifiniva, chi chiudeva. Chi toglieva i vizi e chi picchiava. Il quartetto c’era e c’è ancora: Panatta è una radio accesa che Bertolucci ancora sopporta, Barazzutti è sempre un soldatino e Zugarelli ha i baffi di un tempo, però bianchi. Gente che s’è divertita e se l’è goduta, chi più e chi meno. Consapevole che nella vita lavora’ sia decisamente un’altra cosa. Quella finale mitica ma non solo: negli anni successivi anche altre tre però perse. Con la felicità che dura un attimo, giusto il tempo di far tornare la malinconia. Perché raggiungere un traguardo significa chiudere un capitolo e pensare a quello successivo. E perché anche gli attimi destinati a diventare Storia durano come gli altri, e dopo un secondo vanno via. Tipo un colpo a chiudere, tipo un colpo al ciuffo. Come quel settantasei splendido e splendente. Un volo da aquilone vincente, chiuso in Cile. Con la coppa alzata in faccia al regime e due magliette rosse messe al volo, per provocazione e in segno di solidarietà verso il popolo oppresso. Ma soprattutto con il coraggio di Adriano e Paolo, Corrado e Tonino. Ragazzi di una volta capaci un giorno, quel giorno, di prendere un chiodo azzurro e fisso, il loro, e piantarlo nella terra rossa. Meravigliosamente, e per sempre.